“Il Passato è
un’opera d’arte, senza elementi incongrui né sbavature” (beerbohm)
SULLA “NASCOSA VERITADE”: GIORGIO ESPOSITO PITTORE
I pilastri su cui poggia la pittura
di Giorgio Esposito trovano il loro fondamento granitico e inalienabile in un
richiamo al Passato; un richiamo che ferma il tempo, ricco - com’è - di destino
ed officiato con gesto liturgico rispetto al conformismo delle neo-avanguardie
o, magari, dei relativi riciclaggi trasversali e comodamente omologabili.
Per Esposito l’Arte e la sua Storia
non costituiscono - sotto qualunque voce si voglia configurare i due termini
predetti - il trionfo del caso, ma del suo opposto; specie riandando
alla buona pittura, per la quale “l’elemento decisivo, liberatorio
[...] è quello dell’allontanamento, della solitudine: disgusto istintivo per la
vita cinerea, oscurata del presente”, giacché “è nella solitudine che nasce
l’accordo fra anima occhio e mano di cui parlava Valéry”.
È un accordo che non trasfigura chi
opera seriamente nel campo dei simulacri in un ammodato registratore epocale,
ponendolo - su un versante differenziato - nella condizione di analizzare i
segnali visibili di due crisi la cui soluzione non appare procrastinabile: il
tramonto del fin troppo suffragato “modernismo” e l’interruzione definitiva
del sentiero esaustivamente percorso dall’avanguardia. Sicché, per dar corpo
appieno ad un simile programma, è necessario rientrare all’interno dell’arte e
delle sue vicende, riepilogarne e capirne le intime connessioni, riscoprire -
tra l’abiura e la non dimenticanza dei tempi più recenti - l’utilità e la
consapevolezza estetica di un linguaggio perspicuo; un linguaggio, comunque,
calato in realtà che non annulla, ma decanta prima e sublima dopo, ogni
riflessione sull’esistenza e sulla storia, senza ammanettare al fusto della
colonna infame del consumo la stessa fruizione delle immagini nella stesura
allestitiva e metastorica della loro leggibilità.
Solo
riattraversando come esplorazione sapienzale il terreno dell’arte si
riguadagnano i contorni dell’essenzialità che insemina, per poi raccoglierne i
frutti, il territorio dell’analisi del reale. Su tanto è doveroso perciò
creare le debite distanze da Wilde quando ammette, per sopruso di aforismi,
peraltro a lui cari che “il solo fascino del passato è il fatto che è
passato”. Invece, il legame con l’antico innescato da Giorgio Esposito,
mediante l’uso del simbolo, del mito e della introspezione, si cimenta alla
consapevolezza di una risalita dopo lo smarrimento di una centralità che, senza
marcare l’ordito del nostalgismo, mi capita sovente di aggettivare come adamantina
e pierfrancescana, perché “di fronte alle tranquille ipotesi di utopie
rivoluzionarie proposte in anni passati, la dichiarazione di fiducia nell’uomo
e nella sua storia (contraddittoria, difficile, crudele e profonda) appare un
attacco ben riuscito all’argilla di cui sono composti i piedi dei giganti del
modernismo” e dell’implicito consumo.
In un certo senso, riscattando dalle
complici penombre la pittura che conta - quella che si offre nuda all’osservatore
e la nudità è l’abito degli Dei - meglio si apprezza un distinguo che, tra
originario e originale tra memoria dell’oggetto e oggetto della memoria,
ritorna alla vita sotto l’egida garbatamente cristallizzata vuoi della latina spes
ultima dea vuoi della continuità di chi riaccarezza i vapori salubri e non
chiassosi del decoro, poiché “la vita può essere compresa solo all’indietro, ma
deve essere vissuta in avanti” (Kierkegaard).
Una premessa del genere mi pare
quanto mai propedeutica per chiunque desideri accostarsi ad Esposito (partenopeo
di casato, nicolaiano e barese di adozione, ma inevitabilmente greco nella
quintessenza), esaminando i suoi esiti tutti navigati - dai primi Anni ’70 -
sul mare limpidissimo della coerenza: una coerenza solare e ideale che ha
consentito all’autore di volgere la vela sulle acque mai limacciose del nostro
Rinascimento non solo tosco-romano (Giorgio Esposito si è formato alla scuola
vegliarda di Enedina Zambrini Pinti discepola, nientemeno, di Giovanni
Fattori), laddove, a sentire Sabino Jacobone in una nota del 1982, “l’arte si
identificava con la scienza, cioè come scienza autonoma, soggetta a canoni e a
leggi generali imprescindibili, governata da numeri e da ritmi geometrici ed
architettonici rigorosi”.
Pertanto, come Paolo disarcionato
sulla via che mena a Damasco, vien d’obbligo rivisitare, abbagliati dalle stesse
folgori atemporali, “Pietro della Francesca, Leonardo, Durer, che profusero
nelle loro opere tutta la perfezione della spazialità prospettica
quattrocentesca”, mentre “non vi fu pittore dell’epoca che non avvertisse
l’importanza - e, quindi, il rispetto - dei canoni e delle leggi, che
governavano l’arte come scienza”, senza che una siffatta disciplina risultasse
limitativa o, peggio ancora, riduttiva - anche per quegli artisti definibili,
unicamente per assottigliamento filologico, minori - nei riguardi del
dettato creativo e della sua gravida pratica. Rispetto, perciò, alla gran
bagarre dello sperimentalismo tardo-novecentesco, Giorgio Esposito ha preferito
l’antitesi all’allineamento, rivelandosi del mestiere logocentrico di pittore
nello spiazzamento generazionale che legittimava persino la proteiforme
moltiplicazione di schieramenti “che occultano, meglio tentano di occultare,
dietro l’inconsistente schermo del nuovo, la loro limitatezza”.
Indispensabile, a tal fine, nel
ventennale arco operativo di Esposito è stata e permane - punzonata a fuoco
nella sua fibra - la pratica disegnativa in un processo di riverente e
religioso avvicinamento ai carismi consigliati dall’età della Rinascenza, dai
segreti affascinanti - ma sovente scomodi, al punto da rasentarne l’arcano -
delle tecniche del tempo, all’idolatria del verbo dureriano, “con il suo
ideale supremo: il corpo umano, cioè l’uomo, inteso come la più armoniosa,
equilibrata e completa realtà vivente, fatta ad immagine di Dio”.
Ne è conferma tra una pleiade di
disegni e di idee che santificano la sanguigna, quel particolare ductus
che riorganizza in pianta l’imago senza improvvisare - ma ricostruendo
secundum veritatem - le coordinate grafiche di una mappa del visibile, affinché
non si smarrisca, investiti del grado di nocchieri di fronte alla rosa dei
venti, la giusta rotta del tracciato.
È impossibile, perciò, non fermare
il passo della nostra analisi su connotazioni critiche che definirei preliminari
nella lettura di Giorgio Esposito: dall’abilità mimetica che trascina
nel sogno elementare della rappresentazione -“dove rappresentazione (per dirla
con Giorgio Colli) va intesa nel senso originario di un far riapparire di
fronte: riapparire in prospettiva temporale” - alla virtuosa enfatizzazione del
repertorio formale secondo una poetica che mira a ponderare la proporzione,
contrapponendo alla teoria dell’eccesso il mentale riscatto del concetto
di peso e di misura sulla superficie. Non a caso, la proporzione indicata da
Gian Lorenzo Bernini al cavalier Freart de Chantelou era e resta “un aspetto
del divino perché trae la sua origine dal corpo di Adamo, non solo modellato
dalle mani di Dio, ma anche formato a sua immagine e somiglianza”: d’altra
parte, l’archetipo - col suo spessore vieppiù tautologico - è scritto a grandi
lettere nel libro della Genesi.
L’artisticità di Esposito, quindi,
con le sue opzioni, con la sua museale tensione di “arte allo specchio” relata,
di recente e senza convenevoli procedure, alla Nuova Maniera Italiana nonché ai
suoi paradigmi storici e programmatici, mira soprattutto attraverso il
disegno, ovvero “l’incipit della pittura” (D. Guzzi), ad adorare epifanicamente
la verità della forma, penalizzandone le avverse ed altrui mistificazioni a
pro’ di un’utile soliditas dell’immagine, adempiendo in tal senso, paladino di
una crociata sempiterna allo scopo duale, ma univoco, del delectare e del
docere.
Soltanto a queste condizioni si può
entrare nei meandri del Tempo per affrontarlo con durlindane non donchisciottesche,
perché da sempre il ruolo distruttore di Cronos per poter esistere ha bisogno
proprio delle cose che va distruggendo. Così, l’assunto vale per Esposito, se
l’uomo non originerà rovine attorno ai suoi passi potrà sopravvivere - fuori di
lui - la memoria delle cose, quantunque sia palese come “il tempo non si ferma
ad ammirare la gloria, se ne serve e passa oltre” (Chateubriand).
In questa concezione v’è, peraltro,
una sorta di aderenza alla visione agostiniana che ci appare - tra i solchi
dell'Hortus coltivato dal nostro autore - paludata coi nobili panni di un
profeta michelangiolesco; un profeta messo a vedetta di nostra fiducia,
guardiano di quanto potrebbe contare in perpetuo: il Gioele che allarga il
manoscritto fino allo spasimo, l’Ezechiele che abbandona la sua scriptura
voltandosi ad interrogarci, il Geremia che reclina lo sguardo e medita oltre i
confini dell’umana ratio e di ogni lievitabile allegoria secondo la “nascosa
veritade” dell’Alighieri.
Infatti, da profeta che non disdegna
il ricorso ad una retorica insinuante, sia sub specie humanitatis sia sub specie
aetemitatis, Esposito affronta pause discorsive, ma dichiarate con un
rallentamento dimostrativo che tocca addirittura il diapason dell’ermetico,
tanto da udire ad oltranza Salvator Rosa quando ammette che l’artista non deve
dipingere “sol quel ch’è visibile/ma necessario è che talvolta additi/tutto
quel ch’è incorporeo e ch’è possibile”. Tra l’altro, facendo ritorno alle
ragioni di una scelta nel contempo etica ed estetica, s’è appurato con maggiore
chiarezza come il pianeta artistico di Giorgio Esposito orbiti in una
circonferenza concentrica a quella della classicità e dei conclamati
Cinquecentisti, rispettando in fieri una traiettoria ereditaria e patrimoniale
che autorizza - non mirando il passato dal monocolo delle citazioni d’apres -
la disamina dell’avvenire.
In tal modo, nella teoria della
compromissione che si evince dal diario pubblico e segreto di Esposito, medium
incrollabile e unicistico riappare il sentimento della sapientia classica coi
suoi referenti mai incongrui o sbavati. Lo dimostrano certi costrutti che
rifuggono il moto centrifugo, abbracciando forme concluse con nettezza di
taglio in una precipua scatola geometrica, ché la conquista dello spazio
avviene all’interno di questa scatola per garantire la cosiddetta soluzione del
gruppo: un problema che, nel tentativo di riproporre un dialogo convincente, ha
appassionato i maestri dell’Ellenismo, ultimi eredi di un’arte di monologhi.
Precisiamo pure che per molti
operatori d’oggi il classicismo è soprattutto una costante da viversi e da
interiorizzare, per altri è un “ideale” la cui sommità, forse, è
irraggiungibile, mentre per Esposito non è un accontentarsi della conoscenza
selettiva di una tradizione, ma un possederla - con un’adesione palmare e
sacralmente celebrativa - in maniera tangibile, ripercorrendo l’Antico
sull’aura permanente dell’ispirazione senza le trappole vischiose della “moda”
o dell’ovattato sconfinamento nell’adulazione. Guardare, invece, alle felici e
loquacissime soluzioni dell’Antico significa imporsi una regola da seguire,
accettandone a priori alcuni dettami e, tra questi, l’imitatio non più intesa
sotto l’accezione di “limite”, bensì di “tonico”, in grado - a sua volta - di
favorire il suo libero sviluppo delle arti.
L’artista, cioè, non deve guardare
alla sola Natura, spesso “meschina”, ma deve rivolgere l’indice anche al contraltare
dell’arte che ci ha preceduti.
Allorché, si è coscienti dei
“prodotti” conseguiti dai Padri, la quaestio dell’imitazione, e Giorgio
Esposito lo insegna, si traduce in libera scelta secondo quanto ammonisce la
disciplina, con la sua triadicità severa di nome e di fatto: la semplicità
sull’iter distintivo di un cartesiano nitore, l’euritmia da possedersi finanche
con l’inganno della correzione ottica, la regolarità di un tracciato esemplare.
Parliamo di un tracciato che, in Esposito, fa leva su un classicismo
programmatico, una restaurazione intenzionale dei valori più coerenti della
traditio cumulativamente antica, ma - ripeto - cinquecentesca nello specifico:
uno specifico non dissimile dalla riforma dei Carracci o dal “Classicismo dell’Idea”
predicato dal Domenichino mentre, dal suo pulpito, ci ricorda che il disegno
“dà l’essere e non v’è niente che abbia forma fuor dai suoi termini”: un
disegno, quindi, vasarianamente “padre delle tre arti [...] idea e forma delle
cose”. Per queste ragioni, la coscienza del Passato comporta altresì
l’insorgenza della “Malinconia”: una ninfa inseguitrice della fluidità di tempo
che, per contrappasso, marmorizza il mito e il miraggio dietro un velame quasi
crepuscolare; indice di un isolamento sostanzialmente aristocratico, di un
distacco individualista e letterario sull’orizzonte del saturnismo: “la mia
allegrezza è la malinconia” (Michelangelo, sonetto LXXXI).
È una malinconia senza tempo, che
sfida il “sembiante” dei volti eternati da Esposito con prassi fisiognometrica
e notarile, mentre da un sentimento individuale si plana dolcemente verso
l’astrazione di un sentimento universale: “il mondo è statua, immagine”
esortava Tommaso Campanella. E' la stessa malinconia che si attorciglia nel
labirinto dell’acutezza, del “naturale ingegno” che vede - in un lampo che
rischiara l’etere - le contraddizioni e le vicinanze tra le cose, traslandone
infiniti significati “altri”.
È la constatazione “di
un’irrimediabile solitudine, quella dell’artista, e dell’inneffabilità di un
enigma più che millenario, quello dell’arte”; lo stesso enigma evocato in
sospensione esclamativa da un passo della Vita Sacra di Marsilio Ficino: “quot
sunt causae quibus literati melanchonici sint vel fiant”.
GAETANO MONGELLI
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“GIORGIO ESPOSITO PERDUTO NELL’OLIMPO”
C’è una impressionante fuga di
balconi dal balcone di Esposito, un taglio tra le prospettive monumentali che
si precipitano sul mare, il bianco della pietra e, in fondo, il cobalto del mare.
Ed è un destino neoclassico quello del nostro pittore, che vive in un palazzo
della Bari di inizio secolo, tra opere che incombono con la forza del mito,
della storia e danno al visitatore un effetto straniante. Benvenuti nel mondo
degli dei.
Giorgio Esposito vive tra Corato e
Bari, metà della sua vita si consuma tra automobili e attività didattica,
l’altra metà il pittore la riserva a una didattica della propria mano, del
proprio cuore. Vive in un quarto piano a realizzare modelli di cera e di gesso
attraverso i quali studiare come Rembrandt abbia potuto riprodurre un bue
squartato, come Poussin abbia potuto dipingere con l’apollineità che gli
sappiamo, come Leonardo, Piero della Francesca e Durer abbiano consumato le
loro ore sui trattati delle geometrie e delle anatomie. Se n’è fatto anche
delle riproduzioni, ha rappresentato su manifesti che trovi appesi ai muri
dello studio i rapporti geometrici e la struttura dei volumi nel corpo umano,
nei corpi animali, sui cavalli. Esposito è un rinascimentale e poi è un
arcadico ma è anche un neoclassico. Voglio dire che è tutte quelle cose e quei
momenti che hanno a che fare con la pittura colta, con la grande tecnica
pittorica in cui c’è da dare prova che la mano ci sa fare col disegno e la
mente è pronta a smarrirsi nei giardini di un’arte senza tempo abitata da dei
da eroi da miti.
Giorgio Esposito è il guardiano
dell’Olimpo.
La faccenda va così, che il pittore
non si è accorto dell’esistenza della pittura classica e del classicismo al
tempo della Nuova Maniera Italiana, ma se n’è accorto quando ha mosso la lingua
e ha sentito che ne venivano fuori accenti greci. Esposito è nato infatti da
genitori di Corfù e oggi parla correntemente il greco e frequenta abitualmente
turchi e greci.
Questo non vuol dire che tutti gli
artisti greci per essere nati laggiù debbano dipingere dei e eroi ma in lui è
accaduto così. Lui ha poppato latte e mito, un’abbeverata dai seni di Veneri
Giunoni Minerve Diane che non lo hanno abbandonato mai più. Esposito vive
dunque tra l’Olimpo e il quartiere murattiano di Bari, anzi tra la via Appia
che a Corato subisce una brusca interruzione e Bari. È accaduta la stessa cosa
a un altro italo-greco, De Chirico. I templi e i marmi parii di Volos e
dell’Attica gli hanno fatto vedere Dei e Fauni e Ninfe dappertutto. De Chirico
non si è liberato dai fantasmi metafisici per tutta la vita. Così Esposito. E
l’aver traslocato nel giardino degli Dei lo ha portato a pensare che l’arte è
il luogo del non tempo, cioè è un luogo dove il tempo si azzera e gli uomini
possono esprimersi al modo in cui più gli aggrada, senza regole, senza tener
conto del prima e del poi, delle correnti, delle forme e delle formule. Esiste
infatti solo la bellezza nel mondo dell’arte e l’artista è impegnato a
rappresentarla.
Ci fu un tempo in cui la bellezza
coincideva con la spontaneità creativa, Giorgio Esposito non nega che in quelle
circostanze usasse mettersi davanti a una tela bianca, chiudeva gli occhi e
imbrattava con le mani, alla maniera dell’avanguardia americana degli anni
settanta. Risultato? La propria interiorità sviscerata come una spruzzata di
sangue. Poi si è stancato di questo meccanicismo creativo e ha ripreso gli
studi, ha rispolverato gli insegnamenti della pittrice Enedina Pinti Zambrini,
dalle cui mani erano usciti De Robertis e D’Ingeo. Per il bimillenario
oraziano Esposito si è gettato in un’impresa colossale e ha rappresentato il
poeta di Venosa nella battaglia di Filippi, tra cavalli, lance, corazze, scudi.
Poi una serie di amori mitologici con finale tragico, come Apollo e Dafne e
Andromeda e Perseo.
Ultimo atto di questa serie
mitologica un Fetonte che precipita col suo carro dal centro del cielo. I
cavalli alati hanno perso improvvisamente la leggerezza e precipitano
pesantemente, vanno a schiantarsi su qualche roccia dell’Attica o nell’Egeo.
Con quel carro è precipitato all’improvviso anche Esposito, ma non è caduto in
Grecia è caduto nella Bari medievale, in una delle tante vie che portano alla
Basilica di San Nicola. Giorgio è apparso a San Nicola e gli ha raccontato
tante di quelle storie di pellegrini e di artigiani e di poveri cristi che
alla fine il Santo gli ha detto: non capisco, raffigurameli.
Giorgio Esposito si è gettato a
capofitto nella raffigurazione di tutto un mondo di margini ricorrendo a una
ritrattistica fine, puntigliosa, analitica, tra pittura americana degli anni
trenta e iperrealismo. Perché uno come lui, con quella mano diabolica che si
ritrova, può fare di tutto in pittura e in disegno. E come guardiano di San
Nicola oggi lo trovo più poetico che come guardiano dell’Olimpo, dal momento
che dal Rinascimento ai Neomanieristi si sono divertiti in tanti a osannare gli
Dei e a fuggire in luoghi e in tempi lontani dal nostro, dalla realtà, dalla
quotidianità. A fuggire dal presente. Anche se a parlarne con Giorgio si ostina
a dirti che è solo rapito dalla bellezza, che la bellezza vera è sì nel mondo
pagano, ma lo è anche nella tradizione evangelica e biblica, lo è insomma
dovunque la mente riesca a figurarsi creature meravigliose.
Tuttavia se debbo credere alla
psicanalisi, Fetonte che cade pone una cesura, un prima e un poi nella ricerca
di Esposito, nel senso che il pittore corfiota-barese se pure continua a
fuggire nell’altrove della storia e del mito, torna più frequentemente a
raccontare le cose infelici e a rappresentare gli uomini e le situazioni che
vivono intorno a noi.
RAFFAELE
NIGRO
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(Giornale «Puglia»,
21-11-1987)
Bari
- Con il ricordo di Maria Morelli, così prematuramente sottratta all’amore del
suo compagno di vita e dei suoi figli, siamo entrati nella galleria di via
Cairoli «Il fante di Fiori», una galleria che pur nel suo poco spazio ha saputo
dare spazio a tanti prestigiosi artisti d’avanguardia. Questa volta lo spazio è
stato riservato a Giorgio Esposito, un barese (anche se il casato non lo è),
diplomatosi presso l’istituto d’Arte e l’Accademia BB.AA. di Bari, ma che tanta
parte della sua formazione la deve alla pittrice Enedina Zambrini Pinti,
allieva di quel grande maestro che è stato Giovanni Fattori. E Giorgio Esposito
con i lavori esposti si è mostrato ben degno di tanta scuola, una scuola che si
identifica nella pittura più pura, più meditata, più storica e più completa;
quella pittura di cui oggi non si riconoscono più, incredibilmente i valori. Ma
Giorgio Esposito con la sua produzione presentata (produzione che ha
comportato anni di lavoro, di studio e di applicazione: elementi questi che
nella pittura moderna vengono decisamente snobbati) a tali valori si aggancia
in una luce di profonda dedizione.
Quindi i suoi meriti
sono tanti. Più volte avevamo avuto modo di apprezzare i lavori di Esposito
dedicati alle nature morte, nel rispetto di una figurazione metodica e lineare
come nell’ossequio di determinati toni legati alla pittura settecentesca, ma in
questa occasione l’artista ci offre un’altra dimensione della sua pittura e
della sua sensibilità.
"Ultima cena - olio su tela cm 120x280" |
UNA
TAVOLATA
Tralasciando
quelle che sono le sue «opere di contorno», nella esposizione in corso, opere
tutte validissime per la identificazione dell’artista, qui ci preme
sottolineare una gigantesca opera, che ricopre un’intera parete e che merita
tanta attenzione. Giorgio Esposito ha voluto raffigurare una tavolata con una
dozzina è più di convitati, figure vere, figure di ottantenni e giù di lì,
ricavate dalla visita fatta a quella casa di riposo che si trova sulla via
Napoli. La composizione, pertanto, è ricca di spunti interessantissimi che sono
pittorici per un verso ma sono anche umanissimi per l’altro. E la “ripresa” di
tante figure ormai sugli scogli dell’abbandono e dell’esistenza costituisce
quasi, a nostro avviso, un “atto di coraggio”. Anche perché Giorgio Esposito
queste sue figure le fa “parlare” attraverso dei volti rugosi, delle bocche
senza denti, degli occhi allucinanti che dicono «tu, che vuoi, noi non siamo
più noi: noi siamo finiti». E' questa la interpretazione che si può facilmente
dare a tutta la scena, rifinita in ogni punto, in ogni particolare, per cui
l’opera si sgancia da quelle comuni e tocca vertici di una toccante simbiosi di
pittoricità e di spiritualità. Può essere compresa, può rimanere incompresa, ma
è certo che Giorgio Esposito in ogni suo lavoro come in ogni momento della sua
operatività costituisce un soggetto trainante di quella pittura settecentesca
alla quale è così legato. Perché l’ama e perché la sente come manifestazione di
fondo del suo carattere, e della sua personalità, secondo vecchi canoni che
rinunciano alla popolarità “diplomatica” ed occasionale, preferendo quello che
si guadagna e conquista nel tempo. Anche se è più cara.
PIETRO DE GIOSA
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UN CRISTO CHE VA AL DI LÀ DEL DOLORE CON TRAVAGLIO D’ARTE MOLTO INTENSO
Un’opera d’arte che meriti questa
definizione è sempre un brandello di vita intensamente sofferto e insieme
goduto nel travaglio creativo; che è poi sempre miracolosa sintesi e
trasfigurazione catartica del dolore ineliminabile dell’esistenza nel suo
fluire e intrecciarsi con l’esistenza degli altri, e della gioia o estasi
dell’espressione, di questo ponte lanciato fra sé e gli altri, per “dire”,
qualunque sia lo strumento che si usi, immagine o parola, nota musicale o segno
matematico.
Il linguaggio di Giorgio Esposito è
affidato al pennello: chi lo conosce, sa che di tanto in tanto sarà convocato
nel suo studio per andare a vedere come ha raddensato su una tela i succhi
ancora caldi dell’ultimo suo brandello di vita trasporti in una dimensione
atemporale e allusiva, al di là della pena di vivere e dell’estasi creativa,
diventati creatura autonoma e di per sé completa, capace di parlare a chiunque
ne sappia decifrare il linguaggio.
Chi
vada a trovarlo ora nel suo studio-rifugio in mezzo al verde, a fianco della
Pineta S. Francesco, può godersi il “Cristo deposto” da poco ultimato.
SOFFERENZA
Questo Cristo in realtà esprime più
di tutte le altre tele un apice di sofferenza superata e sublimata in una donazione
che è supremo atto d’amore.
Sta infatti, questo Cristo dal corpo
verginale levigato puro, disteso immobile su un nudo marmo bianco, quasi
sospeso in un cielo buio che può essere il vuoto siderale o la rappresentazione
dell’infinito spazio al di là di ogni volume spaziale; pochi, discreti, i segni
del martirio, non più di due tracce di sangue nel candore di un corpo perfetto:
non quegli sfregi e quegli strazi con cui di solito viene raffigurato il Cristo
morto, a indurre rimorsi dell’anima contrastata dal peccato e struggenti mea
culpa.
Solo un altro Cristo, che io sappia,
ha l’apollinea purezza di questo, ed è il Cristo della Pietà michelangiolesca;
ma il candore marmoreo di quel corpo mollemente abbandonato in braccio alla
madre trasferisce tutto su quest’ultima lo strazio e la lacerazione d’anima,
sicché l’effetto è lo stesso che si prova davanti alle altre pietà.
Invece il Cristo di Giorgio Esposito
naviga al di là del dolore al di là della morte, è un Cristo nel quale già sta
compiendosi il miracolo della Resurrezione, sicché pare offrirsi in dono
perpetuo agli uomini, simbolo palpitante di quel suo cannibalico sublime invito
a cibarsi della sua carne perché la sua carne è fonte di vita eterna.
Sicché ti trasmette una commozione
rasserenante.
Ecco perché parlavo prima di supremo
dono d’amore: questo Cristo di Esposito è in realtà un Cristo levato in alto
sospeso nel vuoto come un’ostia consacrata levata verso il cielo
nell’Offertorio.
E la magia dell’Arte è tale che la
creatura stessa ne esce riscattata purificazione innalzata.
MARIA MARCONE
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FILOSOFIA, TEOLOGIA E SCIENZA:
ECCO QUELLO CHE ESPOSITO RIESCE A TESTIMONIARE NELLE OPERE
ECCO QUELLO CHE ESPOSITO RIESCE A TESTIMONIARE NELLE OPERE
Quando un brano musicale, una poesia, un quadro si
possono definire “opera d’arte”? Quando comunicano qualcosa, non importa se
coincidente con l’intenzione dell’artista proprio perché nella libertà dello
spirito è la radice dell’arte. È quello che mi è capitato di recente per le
opere di Giorgio Esposito. Intanto una sensazione di profonda pace interiore,
derivata dall’uso del colore: toni che vanno dal bianco al grigio-beige;
azzurri evanescenti; caldi “terra di Siena” o rossi, un tocco appena, nel
taglio di un libro, nel cuore di un melograno, o giallo-verdolino: tonde
melecotogne che trasmettono insieme profumo e sapore. Ma accanto a queste composizioni,
eccone altre, diverse anche nelle dimensioni. “Fetonte precipitato dal carro
del sole”; “Ecce homo”; la “Battaglia di Filippi”; la “Resurrezione”, che ci
riportano alla storia più nobile della pittura e non solo per gli “argomenti”,
per la maestria del disegno e l’uso del colore, appunto. Un uso interiore,
direi, nel senso che non “descrive”, ma spiega quel che i protagonisti si
portano dentro di umiliazione, sofferenza o liberazione.
Bisognava, dunque, incontrare
l’autore di questo “mondo” così diverso da quello che siamo abituati a vedere
intorno e dentro le opere d’arte. Dunque, Giorgio Esposito è nato a Bari, per
la cronaca nel 1952, si è diplomato all’Accademia di Belle Arti della città; è
stato allievo della pittrice Zambrini Pinti, allieva a sua volta di Fattori. Ha
partecipato a numerosissime mostre personali e collettive; ha vinto il 1°
Premio Internazionale di pittura tenuto a Mantova nel Palazzo Te. Questa è
l’elementare “scheda” che fornisce di sé. Giorgio Esposito si appassiona,
invece, parlando della sua concezione dell’arte. Anticipo che è così diversa da
quella moderna. Non è d’accordo. “È moderno, dice, tutto ciò che è legato alla
filosofia, alla teologia, alla scienza del nostro tempo. Quando manca questo
legame si deve parlare di arte contemporanea. Così sono le opere d’oggi.
Riporta il pensiero del famoso
Severini, autore di un volume fondamentale “Dal Cubismo al Classicismo”, edito
solo in Francia, pensiero che pienamente condivide. Nelle opere d’oggi, non c’è
prospettiva, quindi si può parlare solo di decorazione. Bisogna partire dal
Rinascimento quando, appunto, nasce la prospettiva. Prima, e l’arte bizantina
ce lo testimonia, Dio era al di là della materia. Nel Rinascimento, ma già a
cominciare da Giotto, lo spirito “si fa carne” e dunque l’arte non deve andare
“oltre”, ma imitare la materia. Non solo. Leonardo diceva: “Non dipingere mai
gli abiti che si usano nel tuo tempo” nel senso che la pittura non deve essere
legata al tempo dell’artista.
Mentre Giorgio Esposito parla,
continuo ad osservare le sue tele. “Allora, gli domando, non si deve cercare un
significato?”. “Anzi! L’arte è comunicazione. Se un comico vale riesce a far
ridere o quasi, così l’artista deve dipingere ogni cosa per quel che è”.
E non sono parole. Usa fare, come facevano
Michelangelo, Tintoretto, Veronese, Degas, modellini in cera o argilla degli
“elementi” - uomini, animali - che “entreranno” nelle sue composizioni. Li
accosta, li illumina, li trasforma fino a raggiungere il risultato che gli
corrisponde. Ha studiato sui libri di anatomia perché quei corpi - uomini,
animali - non risultassero inventati, ma come realmente sono, ossa, muscoli e
sangue. Ho pensato agli allievi del prof. Giorgio Esposito dell’Istituto d’Arte
di Corato, dove insegna. Li ho invitati, sperando che almeno uno di loro
sappia mantenere accesa quella fiaccola che, non è retorica, il loro Maestro ha
ereditato oltre il tempo e lo spazio dai “grandi” della pittura ed è l’unica
capace di illuminare fin nel profondo lo spirito umano.
ELVIRA SARLI GIANFALDONI
“ARTE: SCIENZA AUTONOMA”
Vi è nella pittura moderna e contemporanea l’indubbio
fascino della espressione spontanea, meglio istintiva, la rilevante potenza
dell’estro creativo, talvolta addirittura sublimato dall’astrazione, il
suggestivo sopravvento dell’immaginazione sulla realtà.
Sto, naturalmente, parlando di pittori autentici e non di
quelli, purtroppo numerosissimi, per i quali l’espressione spontanea si riduce
a squallida farneticazione, la potenza creativa appare soltanto prepotenza
aggressiva e l’immaginazione artistica traligna in tronfia presunzione.
E' fuori di dubbio, però, che dall’ottocento - e sempre più
fino ai giorni nostri - la pittura, per qualificata e valida che sia, si è
andata discostando dalla scienza, laddove nel rinascimento l’arte si
identificava con la scienza stessa, cioè come scienza-autonoma, soggetta a
canoni e leggi generali imprescindibili, governata da numeri e da ritmi
geometrici ed architettonici rigorosi.
Astrazion fatta dai sommi, come Piero della Francesca,
Leonardo, Durer, che profusero nelle loro opere tutta la perfezione della
spazialità prospettica quattrocentesca, non vi fu pittore dell’epoca, che non
avvertisse la importanza - e, quindi, il rispetto - dei canoni e delle leggi, che
governavano l’arte come scienza.
E non può certo dirsi - per quanto ci è stato dato di vedere
- che in quegli artisti, anche nei minori, la ferrea applicazione della teoria
scientifica ponesse dei limiti alla libertà della fantasia e
dell’immaginazione!
Intendo dire che i pittori di allora, quale che fosse il
personale livello artistico, “sapevano dipingere” tutti, mentre la cosiddetta
rivoluzione artistica, iniziata per antonomasia con gli impressionisti, ha nel
suo rapido evolversi consentita la proliferazione sempre più frequente di
coloro che occultano, meglio tentano di occultare, dietro l’inconsistente
schermo del “nuovo”, la loro limitatezza.
Data, per certa tale premessa, appare strano, se non
addirittura incredibile, che esistano oggi pittori come Giorgio Esposito. Egli,
giovane, si è accostato alla stupenda soglia dell’arte proprio nel tempo, in
cui maggiore era il fervore degli “ismi” e dei “neo” con le loro suggestive
implicazioni; eppure già pratico di quei rudimenti, che accademie e licei artistici
riescono più o meno ad ammannire, non solo non si è lasciato irretire, come i
più, da tali allettanti suggestioni, ma, proprio attraverso il raffronto, ha
compreso che la più moderna cioè la più “attuale” delle arti decorative è
sempre stata - e rimane - quella antica, vale a dire l’arte-scienza, di cui ho
fatto dianzi cenno. Ed, allora, mentre la maggior parte dei suoi coetanei
consorti, coadiuvati da una critica partigiana, raggiungeva sollecitamente e
agevolmente, la meta della “imitazione” sfacciata di pseudo maestri contemporanei
col puro e semplice “asservimento” a questa o a quella corrente, Esposito prima
di affrontare il suo discorso pittorico, ha trascorso oltre dieci anni soltanto
a “studiare” i grandi, veri maestri del passato, in particolare il gotico
rinascimentale Albrecht Durer, con il suo ideale supremo: il corpo umano, cioè
l’uomo, inteso come la più armoniosa, equilibrata e completa realtà vivente,
fatta ad immagine di Dio.
Centinaia di studi anatomici, corpi umani e di animali,
statici o in movimento, costruiti e selezionati con impressionante
meticolosità, in assoluta obbedienza a canoni dei trattati del Durer, hanno
creato il granitico supporto alla pittura vera e propria di Esposito.
Naturalmente, per attingere determinati risultati visivi, Esposito ha subito
intuito che doveva non soltanto “concepire” ma anche “fare” come gli antichi,
cioè penetrare, fin dove possibile, nel segreto ed affascinante mondo delle
tecniche del tempo, in cui la pittura era arte-scienza.
E, così, mentre gli altri escogitavano nuovi mezzi tecnici e
sistemi, volti alla sempre maggiore rapidità dei loro “prodotti”, Esposito
cercava di scoprire negli antichi dipinti museali i segreti delle imprimiture,
dei diluenti, delle vernici, degli impasti e delle velature, sì da poter dare
alle sue opere la sostanza materica intrinseca, oltre che l’aspetto esteriore,
dei dipinti dei pittori-scienziati come il suo idolatrato Durer!
È ovvio che, con tali premesse, la produzione pittorica di Esposito
non può non essere esigua, ma egli è fermamente deciso a non trasandare il suo
nobile ed unico intento, declassandosi al livello dianzi commentato.
Gli intenditori di arte sono pochissimi, ma sono, come me,
molti gli osservatori sensibili, capaci di discriminare tra arte durevole, e
quindi vera, ed arte effimera, quindi non vera. Io sono certo che saranno
questi ultimi a conoscere, prima o poi, il giusto valore artistico di Giorgio
Esposito.
SABINO JACOBONE
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